La pericolosità e la scarsa convenienza economica di riscaldare l’acqua con l’energia nucleare per produrre energia elettrica balza agli occhi: nessuno userebbe una bomba atomica per scaldare una pentola per la pasta. Ma al di là di queste considerazioni elementari, c’è uno stretto legame tra nucleare civile e nucleare militare.
Per causare una reazione di fissione che produrrà energia, viene utilizzato l’uranio 235 – “l’unico nucleo fissile che esiste nello stato naturale”. Quando l’uranio viene estratto, tuttavia, è composto solo dallo 0,7% di uranio 235. Il resto, cioè il 99,3% del materiale, è uranio 238. Così, per produrre energia, è necessario “arricchire l’uranio”, cioè aumentare la concentrazione di uranio 235. Per questo, la tecnica principale utilizzata è la centrifuga.
Per funzionare, una centrale nucleare deve utilizzare uranio a basso arricchimento (contenitori EnU235 superiori allo 0,71% e rigorosamente inferiore al 20%). Ciò richiede un uso significativo delle centrifughe, ma non è nulla in confronto al livello di uranio 235 necessario per utilizzare un reattore di ricerca nucleare. In questo caso, viene utilizzato uranio altamente arricchito, cioè con un contenuto di U 235 superiore o pari al 20%. Una volta raggiunto il 20% è possibile raggiungere il 90% molto rapidamente.
Così si esprimeva il Rapporto sulla situazione dell’industria nucleare nel mondo del 2018:
“Gli stati dotati di armi nucleari rimangono i principali sostenitori dei programmi di energia nucleare. WNISR2018 offre un primo sguardo alla questione se gli interessi militari servano come uno dei fattori che spingono l’estensione della durata delle strutture esistenti e le nuove costruzioni in alcuni paesi. Perché l’energia nucleare si sta dimostrando sorprendentemente resistente, in particolari luoghi del mondo, al drastico cambiamento delle condizioni del mercato globale dell’energia e delle strutture per la fornitura di elettricità? In un contesto di declino dell’industria nucleare mondiale nel suo complesso, i piani per l’estensione della vita utile degli impianti e le nuove costruzioni nucleari rimangono le principali aree di investimento in alcuni paesi specifici. Persistono forti legami con progetti come Hinkley Point C nel Regno Unito, nonostante i costi si siano quintuplicati rispetto alle stime originali, una serie di difficoltà tecniche ancora irrisolte e le richieste di crescenti concessioni finanziarie e garanzie governative.
Stanno cominciando ad emergere prove in un certo numero di importanti stati nucleari militari per ulteriori significative interdipendenze industriali riguardo alle capacità di sostenere i programmi di propulsione nucleare navale. Con il declino dell’energia nucleare civile negli Stati Uniti, una serie di recenti rapporti ha sottolineato l’importanza per la “marina nucleare” di una continua base nazionale di ingegneria nucleare sostenuta da politiche per sostenere il settore nucleare civile. Il “Nuclear Sector Deal” del Nuclear Industry Council del Regno Unito afferma che “il settore si impegna ad aumentare le opportunità di trasferibilità tra le industrie civili e della difesa e ad aumentare in generale la mobilità per garantire che le risorse siano posizionate nei luoghi richiesti” e che il 18% delle lacune di competenze previste può essere colmato da “trasferibilità e mobilità”. In diversi paesi, può darsi che i fattori militari svolgano un ruolo significativo nella persistenza di quella che altrimenti è sempre più riconosciuta come la crescente obsolescenza dell’energia nucleare come tecnologia di generazione di elettricità a basse emissioni di carbonio”.
Così, un sito civile che produce energia può essere rapidamente trasformato in un’installazione militare sotto falso nome.
È in questo quadro che si inserisce la notizia che ENI e UKAEA (United Kingdom Atomic Energy Authority) l’autorità del Regno Unito responsabile per l’energia atomica, hanno siglato un accordo di collaborazione per condurre attività di ricerca e sviluppo nel campo dell’energia da fusione, che avvia in primo luogo la realizzazione dell’impianto più grande e avanzato al mondo per la gestione del ciclo del trizio, combustibile chiave nel processo di fusione, come si legge nel comunicato diffuso dalla multinazionale energetica italiana. Il comunicato poi si dilunga sui benefici che la produzione del trizio porterà alla generazione del combustibile nelle centrali a fusione, ancora di là da venire.
Ben più attuale, secondo il “World Nuclear Industry Status Report 2024”, è la produzione di trizio per usi militari, che attualmente rappresenta il principale contributo dei reattori civili alla produzione bellica. Le moderne armi termonucleari utilizzano il trizio, un isotopo radioattivo dell’idrogeno, per “aumentare” la resa nucleare del pozzo esplosivo di fissione, o “primario”, che genera l’intensa energia diretta ad accendere la fusione “secondaria”. L’emivita radioattiva del trizio è di 12,3 anni e ogni anno una data quantità di trizio diminuirà del 5,5%. Pertanto, per mantenere una data riserva di trizio per le armi, l’isotopo deve essere prodotto continuamente per sostituire il materiale perso a causa del decadimento radioattivo. Storicamente, questo è stato fatto dagli Stati Uniti, dalla Francia e da altri stati dotati di armi nucleari irradiando bersagli di litio in reattori militari dedicati e processando chimicamente i bersagli per estrarre il trizio.
Negli Stati Uniti, il trizio è stato prodotto nei reattori di proprietà del governo presso il sito di Savannah River nella Carolina del Sud fino a quando l’ultimo reattore operativo è stato chiuso nel 1988 per motivi di sicurezza. Dal 2003, gli Stati Uniti producono trizio per le armi utilizzando i neutroni generati dalle centrali nucleari civili, in particolare i due reattori di Watts Bar nello stato del Tennessee.
Nel marzo 2024, il governo francese ha annunciato che, dopo la chiusura dei propri reattori di produzione di trizio, stava collaborando con il gigante dell’energia EDF per produrre trizio per il suo programma di armi nucleari presso la centrale nucleare a doppio reattore di Civaux. Il programma non è stato ancora approvato dalle autorità francesi per la sicurezza nucleare. EDF dovrebbe presentare un fascicolo tecnico nell’autunno del 2024 con un primo test previsto per il 2025.
Nelle armi termo nucleari il trizio viene usato per l’innesco della reazione, quando una miscela di trizio e deuterio viene iniettata nella camera di scoppio, successivamente viene compressa e subisce reazioni di fusione, rilasciando neutroni ad alta energia. Questo processo migliora notevolmente l’efficienza del combustibile primario (plutonio e/o uranio altamente arricchito) che subisce la fissione. Ciò consente una riduzione della massa del combustibile e degli altri componenti primari (riflettore, esplosivo ad alto potenziale) necessari per generare una resa sufficientemente elevata (dell’ordine di dieci chilotoni) per accendere il secondario. Il trizio rende anche le armi nucleari a fissione “a prova di predetonazione”, consentendo l’utilizzo di materiali fissili con tassi di neutroni di fondo spontanei più elevati (come il plutonio per reattori) senza alcuna riduzione della resa prevista. Stime indipendenti del fabbisogno storico di trizio per le armi termonucleari variano in media da due a quattro grammi per testata. Alcune armi (note come “dial-a-yield”) possono utilizzare quantità variabili di trizio per regolare la loro potenza esplosiva. Tuttavia, nel complesso, la domanda di trizio è aumentata negli ultimi anni per le scorte statunitensi, presumibilmente per aumentare i margini di performance.
Il governo italiano, di qualsiasi colore sia, è sempre disponibile ad assecondare le mire di sfruttamento dell’ENI, ed ecco a tempo di record varata un disegno di legge delega che permetterebbe anche allo Stato italiano, in barba alle conquiste ottenute dal movimento antinucleare con l’azione diretta, di partecipare alla torta del nucleare militare, gabellandolo per civile.
Ancora una volta il governo si rivela il peggior nemico della società.
Avis Everhard